Profughi

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Il Caffè, 27 ottobre 2013, pagg. 1 e 35. (PDF)

Nenad Stojanovic, politologo

Un profugo è qualcuno che fugge da qualche cosa. Etimologicamente questa parola deriva dal verbo latino profugĕre, “cercare scampo”. Secondo il vocabolario Treccani, il profugo è una “persona costretta ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi come eruzioni vulcaniche, terremoti, alluvioni, ecc.”

Ma la vita, la vita di ogni persona, è una cosa troppo complessa e le definizioni che troviamo nei vocabolari raramente riescono a circoscrivere un fenomeno, a riflettere la complessità della vita, a rendere giustizia all’esperienza concreta di ogni essere umano.

È così può succedere che qualcuno che i media o la politica definiscono come “profugo” in realtà non fugge da qualche cosa o per lo meno non è consapevole che la sua è una fuga. Ricordo ancora come se fosse ieri quel giorno dell’aprile 1992 quando, a Sarajevo, salii su un autobus di linea diretto in Germania (lo racconto nel libro “C’era una volta una città. Racconti di Sarajevo”, Fontana Edizioni, 2007). Non avevo l’impressione di “fuggire” da qualche cosa. Me ne andavo per trascorrere qualche settimana dai parenti in Germania, tant’è che nella mia valigetta misi più libri di scuola (dovevo preparare alcuni esami) che vestiti o ricordi. E tanto meno pensavo che quel “qualche cosa” – il fatto che da quasi due settimane le scuole erano chiuse, che la gente andava nelle piazze esclamando slogan come “noi siamo per la pace!”, che udivamo spari e detonazioni sulle colline attorno alla città – fosse l’inizio di una guerra che sarebbe durata tre anni e mezzo e, per quanto riguarda la città di Sarajevo, che si stesse avviando il più lungo assedio dei tempi moderni (superando persino quelli di Leningrado e Stalingrado nella Seconda Guerra mondiale).

La definizione ufficiale pretende anche che il profugo sia stato “costretto” ad abbandonare il suo paese e ne elenca quindi i motivi, limitandosi però a guerre, a persecuzioni politiche o etniche, o ancora a catastrofi naturali. Ma non è forse un profugo anche colui o colei che è costretto a lasciare la propria casa perché non ha alcuna fonte di reddito, perché patisce la fame oppure (ed è probabilmente peggio) perché vede che non riesce a sfamare i propri figli, perché vive in condizioni igieniche abominevoli (senza acqua corrente pulita o con latrine infestate da insetti che trasmettono malattie mortali)? No. Gli Stati più ricchi del pianeta hanno deciso che può avere lo statuto di profugo, e di conseguenza il diritto all’asilo, solo colui o colei che fugge dalla sua terra perché teme di perdere la vita in una guerra o perché perseguitato per motivi politici o etnici. Chi fugge perché teme di perdere la vita morendo di fame o per malattie varie non ha diritto a questo statuto. Il motivo è presto spiegato: gli Stati più ricchi del pianeta temono di essere inondati da questi “profughi economici” e si indignano ipocritamente quando questi poveri invece di inondare le nostre terre annegano in mare.

Nelle scorse settimane abbiamo sentito politici e esperti vari affermare che il problema è “troppo complesso per poter essere risolto”, che non sia possibile accogliere tutti coloro che fuggono dalla miseria e cercano di vivere in un mondo migliore. Certo, è difficile. È difficile quando i paesi più ricchi del pianeta per ogni 100 dollari (o franchi, sterline, euro) della loro ricchezza spendono 22 (Stati Uniti), 29 (Italia), 35 (Germania) o 44 centesimi (Svizzera) per dare una mano ai paesi più poveri tramite l’aiuto allo sviluppo. Solo cinque paesi (Danimarca, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia) hanno raggiunto o superato l’obiettivo minimo fissato dalle Nazioni Unite, ossia devolvono almeno lo 0,7% del loro prodotto nazionale lordo all’aiuto allo sviluppo. (Tutti i dati si basano su uno studio dell’OCSE e si riferiscono all’anno 2005.)

In altre parole, la principale soluzione dell’“emergenza profughi” sta nel promuovere l’eguaglianza e la redistribuzione delle ricchezze a livello mondiale, affinché i più poveri dei poveri di questo pianeta possano vivere in condizioni degne della persona umana. È una soluzione complessa? Può darsi. Ma buona parte della complessità sta nella mancanza di volontà politica nei paesi ricchi di impegnarsi maggiormente nell’aiuto allo sviluppo e meno nell’attuazione di queste politiche (che pur ci sono, soprattutto a causa delle élite corrotte nei paesi poveri).

Chi di noi accetterebbe di lasciare la propria casa, la famiglia, gli amici, le tradizioni e i modi di vita, e di intraprendere un viaggio pieno di pericoli (attraversando mari e deserti), se sa che nel proprio paese si può vivere con dignità, nel presente ma anche in prospettiva futura? Pochi, penso. Pochi accetterebbero di diventare profughi se possono continuare a vivere nel posto in cui sono nati. È qui, credo, la chiave per comprendere i fenomeni migratori e per trovare soluzioni adeguate e degne dell’umanità.

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