il Caffè, 13 maggio 2018, p. 19. PDF
Nenad Stojanović
Tutti abbiamo davanti agli occhi le tremende, inumane atrocità che l’Uomo è stato capace di perpetrare in un passato non così lontano. Dalla Germania nazista alla Cambogia dei Khmer Rossi, dalla Bosnia al Ruanda degli anni Novanta, dalla Birmania alla Siria di oggi. Alcuni di questi crimini sono stati qualificati come genocidio (ossia quando vi è l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, nazionale o religioso). Altri sono conosciuti nel diritto internazionale come crimini di guerra, pulizia etnica, crimini contro l’umanità.
Quando leggiamo o discutiamo di questi crimini tendiamo a pensare che le violenze di tale gravità appartengano ad altri tempi, ad altri Paesi, ad altre civiltà. Noi ne saremmo immuni. La nostra mente respinge l’idea che qualcosa di simile possa colpire ciascuno di noi o che noi stessi possiamo esserne complici, se non addirittura autori.
Ricordo nitidamente un giorno dell’inizio di aprile 1992 quando, davanti a una panetteria, la gente parlava della situazione dei kurdi in Iraq, vittime di un terribile attacco con armi chimiche ordinato dal regime di Saddam Hussein. Ne parlava affermando che da noi un crimine del genere non poteva capitare. “Noi” eravamo una realtà urbana, sviluppata, con persone educate e istruite nelle migliori scuole, gente che la sera andava ai concerti rock oppure guardava le soap americane. Correva il mese d’aprile 1992, dicevo. Ed eravamo a Sarajevo. Mai e poi mai avremmo potuto immaginare che solo pochissimi giorni dopo la nostra città sarebbe stata assediata e bombardata per oltre tre anni, con un bilancio finale di oltre 10.000 vittime: il più lungo assedio dei tempi moderni. Né potevamo immaginare che il Paese nel quale vivevamo sarebbe diventato il sinonimo di “pulizia etnica”; un fenomeno certamente non nuovo ma che solo in seguito alla guerra in Bosnia (1992-1995) è entrato nel vocabolario comune.
“Nessuno Stato è immune. Le atrocità possono essere commesse in qualsiasi società, indipendentemente dal suo grado di sviluppo. Perciò è importante fare per tempo un lavoro di prevenzione”. Troviamo questa frase nel documento fondatore di Gaamac, un’iniziativa lanciata alcuni anni fa a livello internazionale e sostenuta in particolare dal governo svizzero. Gaamac, che sta per Global action against mass atrocity crimes (www.gaamac.org), è una rete globale, guidata da un gruppo di cinque Paesi (Argentina, Costa Rica, Danimarca, Svizzera, Tanzania). Il suo obiettivo è ambizioso: avviare un lavoro di prevenzione per evitare il ripetersi dei più gravi crimini e atrocità. Lo fa attraverso una piattaforma comune dove gli attori statali e le organizzazioni non-governative possono scambiare esperienze e informazioni e approfittare delle rispettive conoscenze specifiche sviluppate nel corso degli anni. Il terzo incontro internazionale avrà luogo dal 23 al 25 maggio in Uganda ed è sostenuto dalle Nazioni Unite. “Tutti parlano della prevenzione, ma non investiamo abbastanza nella prevenzione”, afferma Adama Dieng, giurista senegalese che ha lavorato presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, un tribunale speciale creato per giudicare i responsabili del genocidio ruandese. Dal 2012 è consigliere speciale del segretario generale dell’Onu per la prevenzione del genocidio.
La sfida più difficile di questa lodevole iniziativa è di convincere sempre più Paesi a investire risorse e creare meccanismi per prevenire le atrocità. In altre parole, è importantissimo che le iniziative di questo genere non vengano calate dall’alto ma che all’interno di ogni Paese si sviluppi la consapevolezza che è nel suo interesse, nell’interesse della sua popolazione e delle generazioni future, sviluppare per tempo gli strumenti di prevenzione.
Se ripenso a quei giorni dell’inizio di aprile 1992, e alla rapidità con la quale ciò che era impensabile è diventato non solo pensabile ma tragicamente realizzabile, mi dico che la prevenzione è l’unica speranza che abbiamo. Certo, è importante anche creare i tribunali internazionali per processare i responsabili dei crimini, fare un lavoro di riconciliazione e di pacificazione. Ma è decisamente meglio che non si debba arrivare a questo punto.