Razzismo e quella forza civilizzatrice dell’ipocrisia

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il Caffè, 23 marzo 2014, pp. 1 e 31. PDF

Nenad Stojanovic*

A cosa serve la democrazia? Fra (tanti) svantaggi e (almeno altrettanti) vantaggi la democrazia è utile perché, per dirla col filosofo politico Jon Elster, dispiega la «forza civilizzatrice dell’ipocrisia». Ma come, l’ipocrisia non è qualcosa di ripugnante? Non vi nascondo che, come tanti di voi, neanch’io amo gli ipocriti. Ma se osserviamo le cose con un minimo di distacco ci accorgeremmo che l’ipocrisia, in una democrazia, porta diversi benefici.

La democrazia implica che il potere sia nelle mani dei cittadini, che lo esercitano tramite elezioni e votazioni. Quindi, chi vuole gestire il potere, ossia fare politica, sa che ha bisogno di raccogliere un numero sufficiente di voti. Ecco perché non farà campagna elettorale dicendo ai cittadini-elettori «votatemi perché così potrò occuparmi meglio dei miei affari e di quelli dei miei amici», oppure «votatemi perché, non avendo terminato gli studi, fare politica è per me l’unica possibilità di guadagno» e tanto meno «votatemi perché così la mia ditta potrà approfittare meglio di mandati pubblici». È chiaro che nessun candidato pronuncerà un discorso del genere, per il semplice motivo che sa che gli elettori non apprezzano chi fa politica per scopi personali. Ecco quindi che i candidati si presentano all’elettorato dicendo «votatemi perché mi batto per il bene comune…. per l’aria pulita… per un futuro migliore… per i nostri figli» e così via.

Ma perché quest’ipocrisia svolge una funzione «civilizzatrice»? Primo, perché i politici danno l’esempio e quindi si ottiene un effetto moltiplicatore: se i cittadini vedono che un politico in vista mette in primo piano gli interessi collettivi e il bene comune, ecco che anch’essi, nei loro comportamenti quotidiani, tenderanno a imitarlo e a non pensare solo ai propri interessi particolari e egoistici. Secondo, perché non è facile per un politico, una volta eletto, fare l’esatto contrario di quanto ha promesso nella campagna elettorale. Certo, c’è chi lo fa ma sa che alle prossime elezioni potrebbe essere sanzionato dagli stessi elettori. Terzo, perché a furia di dire «io lotto per il bene comune» il politico finisce per crederci per davvero e impegnarsi maggiormente per gli interessi di tutti. Infine, se tutti i politici dicessero ciò che pensano, le istituzioni democratiche perderebbero legittimità. E la storia insegna che disordini sociali di solito non portano a regimi più democratici ma, al contrario, all’autoritarismo e al populismo. Ci teniamo quindi stretta stretta la nostra democrazia, pur sapendo che i politici (non tutti, ma tanti) sono ipocriti e che alla fine (alcuni, ma non tutti) fanno comunque i propri affari.

L’ipocrisia rivela la sua funzione civilizzatrice anche per quanto riguarda il fenomeno di razzismo. Oggi, almeno alle nostre latitudini, è relativamente raro sentire qualcuno che apertamente insulta gli ebrei. Ciò vuol dire che l’antisemitismo, quindi una forma di razzismo, è stato sradicato? Temo di no. L’affievolirsi dell’antisemitismo manifesto è dovuto soprattutto al fatto che gli antisemiti latenti sanno che oggigiorno, almeno nella nostra società, non è più «politicamente corretto» fare discorsi contro gli ebrei. Ecco quindi che l’antisemita di oggi si tiene le proprie opinioni per sé (o al massimo per la cerchia di amici) e, se stuzzicato, afferma di non avere nulla contro gli ebrei.

Certo, questa è l’ipocrisia. Ma benvenga! Soprattutto se l’alternativa è vivere in una società in cui ognuno si sente libero di esternare i propri pregiudizi razzisti urbi et orbi, piuttosto che tenerseli per sé.

Tuttavia, non tutti i gruppi sono protetti dal velo di ipocrisia. Oggi per esempio, nel cantone Ticino, pochi si scandalizzano quando sentono discorsi anti-italiani. La caccia all’italiano – al frontaliere settentrionale, al manovale meridionale, al «padroncino» immorale ecc. – è diventata, per l’appunto, un hobby «politicamente corretto». Semmai, l’ipocrisia è di un altro tipo: si attaccano i frontalieri e i padroncini, salvo poi servirsene nelle proprie attività economiche private (e bene ha fatto il Caffè a metterlo in luce nell’edizione del 9 marzo).

A sdoganare sentimenti anti-italiani non è stata però la «gente comune», ma una parte (e forse, ahinoi, persino la maggior parte) dell’élite politica cantonale. Ora, lo ricordo, il politico è quello che dà l’esempio: se il cittadino comune vede che certi discorsi pubblici non sono sanzionati a livello politico, che è caduta quell’ipocrisia che un tempo non permetteva di esternare certi pregiudizi, ecco che anche lui si sentirà libero di diffondere pubblicamente medesime osservazioni. (E così, d’altronde, che si passa dalla civiltà alla barbarie, ma consoliamoci che non siamo ancora caduti così in basso.)

Quanto ho scritto a proposito del discorso anti-italiano vale anche per altri gruppi che non sono tutelati dal velo di ipocrisia: i neri, i musulmani, i rom. E fa capire perché è importante mantenere e applicare correttamente quell’articolo del Codice penale (261bis) che sanziona discorsi e atti razzisti nella sfera pubblica.

Paradossalmente, tuttavia, la norma anti-razzista è stata applicata dai tribunali soprattutto nei confronti della gente comune. I giudici sono invece molto restii nell’utilizzarla per sanzionare politici razzisti perché si ritiene che un altro importante principio democratico, quello sulla libertà di espressione, abbia la precedenza in ambito politico.

*politologo e membro della Commissione federale contro il razzismo

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